C come Clessidra (2)

Continua da C come Clessidra
Clessidra è così: non sai mai quando è seria o sta scherzando, la maggior parte delle volte pronuncia con serietà delle frasi esilaranti. Lei è convinta di esprimere un concetto importante ma in realtà è una cazzata.
Non siamo mai andati molto d’accordo. Siamo cresciuti in un ambiente protetto, coccolati e viziati dalla nostra tata che ci ha fatto da madre e da padre fino a vent’anni. I nostri genitori erano affaccendati in altri misteri della vita. Mamma sniffava tutto quello che trovava e girava il mondo con una paio di yatch che potevano gareggiare in lunghezza con un transatlantico. Nostro padre la lasciava fare per godersi le sue innumerevoli amanti e i soldi accumulati dai ricavi della bauxite. Insomma una famiglia moderna e alla moda.
Io e lei ci accapigliavamo per tutto, giusto per non annoiarci, perché dalla vita avevamo davvero tutto. Giocattoli costosi da piccoli, compresi due pony, una tigre albina e una volta persino un mandingo da usare come cariatide. Poi auto come noccioline, io credo di averne sfasciate una dozzina mentre Clessidra nemmeno una. Lì ha capito di essere tagliata per fare il pilota.
“Mi piace Mondone come nome, che ne pensi?”
“Mondone? Originale, quindi hai deciso di tenerlo e pensi che sia maschio.”
“Ho detto che non lo so, ma mi piace pensare ai nomi. Paganella se è una femmina.”
Un pedone si tuffa di lato per evitare la mini, si sfracella contro un bidone della spazzatura, il coperchio rotola verso il centro della carreggiata e viene preso in pieno da una bmw. Sibila via come un freesbee infernale, ma purtroppo non stacca la testa a nessun passante. Sarebbe stato uno spettacolo.
“Credo sia stato Ciondolo.”
“A metterti in cinta?”
“No, a regalarmi i cerchioni in diamante per la mini. Ti ripeto che non so chi sia il padre.”
Non so dove stiamo andando, ma forse nemmeno Clessidra lo sa. A lei piace guidare, quindi passa delle sane ore a girare per la città, evitando accuratamente il traffico nelle ore di punta.
Poi mi addormento e quando mi sveglio sono appoggiato ad un lampione e reggo in mano una colombaia vuota, ma sporca di escrementi di uccello. Clessidra non c’è più: mi avrà abbandonato dopo che ha visto che ho perso interesse nella conversazione.
“Dove hai messo i miei uccelli, brutto pezzo di merda?” mi chiede cortesemente una signora di mezza età che indossa una camicia azzurra con pallini a pois neri che farebbe diventare strabico anche un cieco.
“Credo siano volati via,” rispondo con tutta la gentilezza che riesco a imprimere nel tono della voce.
La signora urla e cerca di colpirmi con un mocassino unto. Scarto il fendente e corro via, abbandonando la gabbia tristemente vuota. La signora è un po’ in sovrappeso, non riesce a raggiungermi e la distanzio di quattro lunghezze. Dopo un po’ però sento un moto di nausea improvvisa e devo fermarmi a vomitare.
Quello che emetto non mi sorprende. In mezzo ai tacos ci sono diverse piume di Colomba.

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